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sabato 19 dicembre 2009

Bari - Pensare con la fotografia: intervista esclusiva a Gabriele Torsello


"La fotografia è comunicazione", questo il pensiero di Gabriele Torsello, in arte Kash, nato nel 1970 in quel di Alessano (Lecce), cittadino del mondo e soprattutto fotografo. Oggi Kash è conosciuto a livello internazionale, già vincitore del premio British Book Design grazie alle foto sul Kashmir (India).

Attualmente Torsello è impegnato in una sorta di performance fotografica dal titolo "Expression volto nostro" curata dall'Apulia Film Commission, presso il Castello Svevo di Bari. L'abbiamo incontrato qualche giorno fa e ci ha regalato un pò del suo tempo, ne è nata un'intervista, o forse una tenue lezione di saggezza, dopotutto le sue foto sono degli appunti di viaggio che approdono all'interno di ognuno di noi. Le sue parole infondono una straordinaria tranquillità, traspare in tutto ciò che dice un'amore viscerale per la sua professione.

D: "Com'è nata la tua passione per la fotografia?
R: " E' nata dalla necessità di comunicare alcune realtà lontane che nell'attualità sono vicine, poichè superano la distanza geografica. La fotografia è un linguaggio, è un mezzo di comunicazione, viene letta da diverse menti, culture, si cerca così di evitare un'influenza politico-sociale e di eliminare il contesto verbale.

D: "Ti sei ispirato a qualche fotografo agli inizi della tua carriera?"
R: "Mi ha colpito molto una mostra di Leonard Freed al Palazzo Esposizioni di Roma, una serie di immagini e testi, un reportage fatto in una zona ostile, Freed diceva che in quella situazione si sentiva vivo, tutto ciò mi ha segnato in un certo senso! Comunque il primo fotografo in assoluto che mi ha spronato è stato Anselm Adams, i suoi libri mi hanno ispirato, ha scritto centinaia di pagine sul negativo e centinaia sulla stampa, leggerlo è stato fantastico, parlava di fisica, di matematica e di musica, tutto ovviamente intorno alla fotografia. Adams parlava di sistema zonale fondamentale per bianco e nero, lui arrivò ad una conclusione del tipo "questo è quello che faccio io, ma può certamente essere fatto anche in un altro modo", tutto ciò mi ha fatto capire che la fotografia può spaziare....ogni foto è diversa - diverso è il modo di leggerla!"

D: "Preferisci l'analogico o il digitale?"
R: "Preferisco l'analogico, mi piace sentire l'odore della pellicola! Utilizzo il digitale solo per esigenze di mercato, il digitale ti permette di saltare alcuni processi ma ne aggiunge degli altri, con l'analogico invece ho tempo d'interagire con le persone, con i soggetti che fotografo, fare un reportage con l'analogico significa che sarà il laboratorio ad occuparsi dello sviluppo, così io ho il tempo per conoscere la gente. Con il digitale si perde tutto questo, perchè devo scaricare io le immagini sul computer.
Comunque in genere per la stampa uso la tecnica tradizionale in camera oscura! Poi non ho l'abitudine di tagliare le immagini, neanche di ritoccarle."

D: "Hai fotografato spesso immagini drammatiche, come riesci a non farti coinvolgere emotivamente?"
R:"In fase di ripresa si hanno diverse percezioni, si sentono le emozioni, c'è molta energia, ma ho l'impressione di sentirmi invisibile, mi metto sempre al limite. Ci sono sfere private difficili da fotografare ma si arriva ad un limite, nel senso che da una parte la senti una forte emozione, ma dall'altra cerchi di non svilupparla, si ha quindi la sensazione di essere invisibile. Rispetto tutto ciò che è personale infatti per non disturbare in genere non utilizzo il flash. Cerco sempre di non oltrepassare quel limite, il rispetto è necessario."

D: "Hai una tua foto preferita?"
R: "No, non ce l'ho, forse quella che avrei voluto fare. Dopotutto le foto non le faccio per me ma per altri. Il mio lavoro è quello di documentare una situazione cercando di eliminare le maschere pirandelliane."


D: "La tua carriera è inziata con le foto del Kashmir, come sono state le prime esperienze?"
R: "Nel 1994 realizzai un reportage nel Kashmir e nessuno voleva pubblicarlo perchè quel conflitto non era interessante per nessuno, in quanto non se ne parlava tanto. Contattai varie agenzie ma mi
risposero tutte in maniera negativa. Una volta telefonai ad un'agenzia e dissi che avevo delle foto sul Kashmir, mi risposero che "non trattavano tessuti"!
Io in quelle foto ci credevo molto ed ho insistito, decisi così di lasciare l'Italia e provai a venderle in Francia, ma niente, non se ne fece nulla, quindi andai in Inghilterra. Lì era diversa la situazione, se ne parlava di quella guerra in Kashmir. Incontrai John Reardon, fotoeditor di The Observer, lui capì la difficoltà e decise di pubblicare il mio lavoro, volle anche l'esclusiva.
Poi iniziai a collaborare con Amnesty International, a quel punto mi chiamarono diversi giornali, anche quelli che mi avevano ignorato!
Quando andai in Kashmir le spese erano tutte a carico mio. Spendevo molto in pellicole, ma per vivere spendevo davvero poco, presi in affitto una capanna che pagai 3 dollari al mese, era una capanna vera e propria, nessun comfort.
Fotografo spesso la gente, in molti casi vivo tra le persone che fotografo, tempo fa per fare un servizio sull'acqua, sono andato in un villaggio dove l'acqua non c'era. Avevano un sistema particolare per prenderla, praticamente l'acqua usciva da un tubo un'ora al giorno, poi bisognava raccoglierla, c'erano delle situazioni veramente difficili, bisognava centellinarla. Questo servizio mi è stato commissionato dalla FAO, è stato il primo servizio richiesto.

D: "Hai anche seguito il caso di Shabana, una bambina afgana, affetta da una malattia rara, come sta oggi la piccola?"
R: "La bambina ora sta bene, era affetta da neurofibroma, ha subito due interventi, uno a Kabul ed uno a Roma, ora ha 4 anni e mezzo e sta bene!"

D: "Nel 2006 sei stato vittima di un rapimento in Afghanistan, come ha segnato la tua carriera quest'esperienza?"
R: "Mi trovavo su un autobus, sono perfino riuscito a scattare qualche foto mentre i talebani mi prendevano, forse per me quello era un modo per sdrammatizzare la situazione. I rapitori naturalmente mi hanno sequestrato l'attrezzatura, sapevo che l'avevano messa da parte, ogni tanto la vedevo, ma non mi hanno restituito nulla, tutto perso, un numero enorme di fotografie perse. Il motivo del rapimento...chissà cos' è successo veramente, forse ho fotografato qualcosa che li ha infastiditi, forse mi hanno scambiato per qualcun'altro, non so, sto mettendo in ordine tutti i dettagli per farli confluire in un libro, il titolo sarà "Afghanistan CameraOscura". Lo sto facendo perchè sul rapimento sono state scritte anche tante stupidaggini, il libro servirà a chiarire un pò di cose."

D: "Concludiamo in leggerezza, hai un particolare consiglio per chi si avvicina alla fotografia come professione o anche solo come passione?"
R: "Il consiglio è quello di ricordare sempre che la fotografia è un mezzo di comunicazione, una comunicazione non verbale, è necessario pensare con la fotografia, pensare con l'immagine, l'immagine è comunicazione!"

Deborah Brivitello

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