
“Nel gioco del jazz” è il nome singolare che si è data una neonata associazione culturale di Bari, con lo scopo di promuovere e diffondere la cultura artistica in tutte le sue forme, ma con un occhio particolare al jazz. Da questa attività non si vuole escludere un certo impegno sociale, che testimonia onestà e bontà di intenzioni. Animatore dell’associazione è Donato Romito; il sassofonista Roberto Ottaviano ne è il direttore artistico.
Per la prima rassegna è stato allestito un cartellone con sei date con musicisti di assoluto rispetto, di cui tre stranieri. L’inaugurazione è toccata a Jean Luc Ponty, ieri, nel Teatro Piccinni, per l’occasione messo a disposizione gratuitamente dall’ amministrazione comunale per meglio favorire il gesto di solidarietà nei confronti dell’associazione “Beppe Valerio”, che, come è noto, si occupa della prevenzione delle nefropatie dell’infanzia.
Occupiamoci ora espressamente della musica e mettiamo a fuoco la figura e la statura artistica di Ponty, il miglior violinista internazionale in campo jazzistico. A 67 anni, di cui quasi la metà vissuti negli Stati Uniti, il musicista vanta un’esperienza vastissima che lo ha portato in cima a tutte le classifiche della critica mondiale.
Se la sua maturazione porta il marchio di altri celebri violinisti, da Stéphane Grappelli, francese come lui, a Joe Venuti, da Svend Asmussen a Stuff Smith, la sua formazione artistica si ispira soprattutto a Miles Davis e John Coltrane. Sarà per questo che inizialmente cominciò a suonare il sassofono. Ma fu il violino ad affascinarlo e ad assorbire tutte le sue energie, tanto che, dopo averlo studiato, pensò di modificarlo: prima utilizzò il violino elettrico a 5 corde con una corda bassa accordata sul Do, e poi un violino a 6 corde con corde di basso in Fa e in Do.
Inoltre, come sperimentatore, Jean Luc applicò al suo strumento distorsori, trasformatori e pedali. Come innovatore negli anni ’70 volle subito percorrere le vie del jazz-rock d’avanguardia, accompagnandosi su quelle strade a John McLaughlin, Frank Zappa, Stanley Clarke, Al Di Meola e Philip Catherine.
Forte di queste esperienze e della sua creatività, Ponty è oggi un compositore raffinato e intelligente. Il suo modo di comporre è simile a quello di uno scrittore: le idee musicali nascono senza sforzo e si sedimentano nella sua mente; una volta metabolizzate, prendono forma definita e si fanno musica. E’ in questa maniera che è stato realizzato l’ultimo lavoro discografico (del 2007), “The Atacama Experience”, un’opera che parla di un excursus geografico che va dal Cile a Bombay passando dall’Irlanda. In particolare, Atacama è un deserto cileno ai confini della regione di Antofagasta, detto il regno del silenzio, famoso per il suo paesaggio lunare e la totale assenza di forme di vita.
“Per me che vivo nella musica – ebbe a dire in proposito il musicista – il silenzio è una realtà inquietante.” Il risultato è un eccellente mosaico di riflessioni di un uomo che si mette in discussione con lo spazio, con il tempo, con il mondo. Nel disco c’è di tutto: jazz classico, jazz/rock, jazz elettronico.
Ed è proprio su questi binari che si è strutturato il concerto barese, dividendosi fra preziose reminiscenze e luminose innovazioni. Dall’ultimo lavoro ha presentato “Back in the ‘60”, “Point of no Return”, “Without Regrets”, “Celtic Steps” e “On My Way to Bombay”. Ma non sono mancati medly da “Mystical Adventure”, del 1982, e dal più recente “Life Enigma”, del 2001. Delicata e intima la sua dedica a Thelonius Monk con “Monk’s Moode”, con la non facile trasposizione su violino delle note scritte per pianoforte.
Il suo fraseggio rimane comunque ancorato a quello del sax, quello di Coltrane soprattutto, e quando concede i suoi assolo, il virtuosismo non è mai fine a sé stesso, senza ombra di quell’autocompiacimento a cui è facile cedere.
Con lui sul palco, alle tastiere William Lecomte, al basso il camerunese Guy Nsanguè Akwa e alla batteria Pierre Francoise Dufour, per una band perfettamente affiatata.
Gianfranco Morisco