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venerdì 1 maggio 2009

Bari - STEFANO BOLLANI: NON SPARATE SUL PIANISTA


La stagione concertistica n° 67 della Camerata Musicale Barese chiude i battenti, e lo fa nei migliori dei modi affidandosi alle doti istrioniche di Stefano Bollani e del suo pianoforte.

Poliedrico, versatile, geniale, istrione (appunto) si è detto di lui; lui che si è accostato al jazz giovanissimo su consiglio di Renato Carosone; sempre lui che ha piantato Jovanotti rinunciando a una tournèe per seguire Enrico Rava; lui che ha suonato con musicisti di fama internazionale del calibro di Lee Konitz, Phil Woods e Gato Barbieri; sì, sempre e proprio lui, col suo fare disinvolto e ironico, da il meglio di sé quando si esibisce da solo al pianoforte. Come nel suo CD “Piano solo” pubblicato dalla ECM e come ha fatto ieri sera sul palco del Teatro Piccinni.

Quando entra in scena (giacca nera e jeans, codino e barba) nessuno sa come comincerà il concerto. Forse non lo sa nemmeno lui, perché il suo repertorio è vastissimo. Non esiste una scaletta dei brani, e se c’è è scritta nel suo (buon)umore ed è affidata all’estro del momento.

Per rompere il ghiaccio, caso mai ci fosse, sceglie la musica classica, che è la formazione di base di tutti i pianisti.
Quanti ricordano la musica di sottofondo degli “intervalli” televisivi della vecchia TV in bianco/nero con tanto di pecorelle sonnolente o paesaggi italiani?
Ecco, lui comincia proprio da lì, divertendosi e divertendo e poi scivolando senza scosse nella famosa e delicata “Tenderly”. Nella fase iniziale il suo è un panismo discorsivo senza soluzione di continuità, che non si sa quando comincia e dove finisce, proprio di chi ha una immensa conoscenza della materia e dello strumento per plasmarla. Lega fra loro brani noti e meno noti in maniera impercettibile, con fugaci reminiscenze e lampi di memoria musicale.
Le pause sono inganni.
Ma è ancora come l’atleta che scalda i muscoli prima della gara. Non si sa se sia jazz, o classica, o né l’uno nè l’altra, ma sue invenzioni estemporanee. E il meglio non tarda ad arrivare.

Prima decolla con un brano di un musicista polacco e poi si lancia in “Fly Me To The Moon”, portata al successo da Frank Sinatra. E qui si concentra tutta la sua sapienza di musicista eclettico in una interpretazione perfetta sotto il profilo personale.
L’artista, il maestro, offre l’esecuzione compiuta del jazz: tema in apertura, improvvisazioni intelligenti da musicista di razza, chiusura di nuovo sul tema. Applausi scroscianti a lungo trattenuti. Segue uno sguardo attento alla musica brasiliana con un brano struggente e poi pausa.

La pausa potrebbe interrompere il feeling pubblico-artista?
Ma nemmeno per sogno!
Perché Bollani riparte con un classico del 1925 “Sweet Georgia Brown”: in un attimo ricrea l’atmosfera fumosa dell’honky tonk, si spreca in virtuosismi da ragtime, si batte il tempo sulla cassa del pianoforte, utilizzando fogli di carta (sic!), pizzicando le corde. Col pianoforte si può permettere tutto e nulla si nega. Semplicemente grandissimo.

Chiude con una sua composizione, “Il barbone di Siviglia” (“Scusate – dice – non sono bravo a trovare i titoli”).

Ma il pubblico non lo lascia andare via così. E allora ecco il bis, calcolato, che tutti si aspettano, e che è diventata una peculiarità dei suoi concerti per la sua bizzarria: Stefano chiede ai presenti quali sono i brani che vogliono ascoltare.
Arrivano così le richieste più disparate di chi crede di metterlo in difficoltà, dai Beatles a Battisti, dai Platters alla “Marsigliese”, per finire ad Heidi. Lui non si scompone: con una richiesta lunga di 12 pezzi, si siede al piano e tutto esegue con la massima disinvoltura, legando e mescolando in una miscellanea gustosa, simpatica, accattivante, divertente e niente affatto contraddittoria.

Dopo due ore il concerto finisce. Peccato! Ma stasera si replica.
Non sparate sul pianista, per favore.

Gianfranco Morisco

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