Da tempo “trapiantato” a Roma, Joe Santangelo è noto negli ambienti sportivi come un vero guerriero del ring, detentore negli anni ‘90 di titoli nazionali ed europei ed in seguito consulente sportivo per federazioni e associazioni di categoria. Poi la carriera in una multinazionale, il riaffiorare della passione per la scrittura, inseguita di notte e nei lunghi viaggi di lavoro. La scrittura per pulire le scorie che si sono depositate con il tempo sul modo di pensare e di vivere il quotidiano e recuperare le esperienze più ricche e intense del proprio recente passato, la musica, la filosofia e le arti marziali.
Oggi Santangelo ritorna con “IL CALLIGRAFO” edito dalla genovese Chinaski. Mishima e Gurdjieff offrono il substrato ideologico di una vicenda noir che vede come protagonisti un Samurai che persegue il pericolo ad ogni costo lanciandosi nel “Fiume dell’Azione” e un guerriero moderno che si misura con se stesso, perché solo elevandosi si può trasformare il mondo circostante.
Santangelo ha scelto di scrivere thriller “impegnati”, come sono state definite dalla stampa le sue opere precedenti, Rockiller e Verba Manent. Storie di uomini alla ricerca del proprio posto nel mondo, che spesso smarriscono la strada. Storie noir inondate di luce, perché l’uomo è sopravvissuto nella storia a ben altre tragedie, dunque esiste sempre una via di fuga.
Il riscatto secondo Santangelo è sempre possibile attraverso la consapevolezza. È nell’invisibile che l’uomo perde o vince. Quando i valori si corrompono e le regole che sono state codificate per tutelarli, vengono attuate “formalmente”, si percorre la strada dell’autocompiacimento, della confusione, della irresponsabilità. L’uomo perde. E invariabilmente tradisce se stesso.
“Più guerrieri, meno gregari. Non sopporto chi si vittimizza, chi non prende le redini della propria esistenza e si lascia vivere dagli eventi, ma più degli ignavi non sopporto chi rifiuta e non sa prendere responsabilità delle proprie azioni. Il guerriero è l’uomo integro che prende una decisione e la persegue fino in fondo, come il samurai del film di Akira Kurosawa (1954 – I Sette Samurai) che nell’istante in cui decide di compiere la missione più pericolosa, si gira e corre verso l’obiettivo. Il mondo dell’industria, della finanza così come della politica e della pubblica amministrazione ha bisogno di uomini integri e responsabili che sappiano fare ciò che deve essere fatto. Guerrieri capaci di uscire dalle ipnosi di massa, di proporre valori nuovi recuperando un passato di nobili e antiche tradizioni ”. Questa è l’ultima provocazione di Santangelo.
PRESENTAZIONE del thriller
Un samurai e un guerriero moderno. Ideogrammi vergati con il sangue su tele di canapa. Un commissario che segue una pista di dolore e morte in un non-luogo che potrebbe essere una qualsiasi delle grandi metropoli in cui ci consumiamo ogni giorno in una frettolosa inazione.
Il calligrafo è un uomo che persegue la regola dell’antico Samurai ma ha perso il proprio equilibrio. Ogni regola ha un guscio, la parte normativa, e un seme, il valore che la parte normativa conserva e protegge. Il calligrafo ha smarrito la strada, si è persuaso che l’esercizio della regola possa risolversi in un adempimento formale, nel decoro fine a se stesso. Che la colpa dei suoi mali sia del mondo.
Ci sono uomini che ancora coltivano i generosi ideali che hanno consentito alla nostra specie di sopravvivere alle più disastrose calamità. Valori sepolti come pepite nella melma, coperti dai sedimenti delle ipnosi di massa.
La trama di questo noir si regge su un confronto generazionale di due modi di interpretare l’etica del guerriero, la ricerca del “valore”.
Alcuni di questi uomini percorrono la via del sangue.
Altri quella della responsabilità.
Ma la colpa del padre non ricade necessariamente sul figlio.
PREMESSA (tratta da “Il Calligrafo”)
Gli uomini compiono impercettibili gesti quotidiani che assumono significato soltanto al termine di una vita. Comportamenti, abitudini invisibili che si completano lentamente, nel silenzio. E che al termine definiscono la qualità di un uomo.
C’è chi si fa vivere dalla vita e dal tempo.
Chi riesce a essere l’attore protagonista, il creatore della propria esistenza. Questo è quello che chiamo vivere la propria vita.
Non è facile e non è per tutti. Credo che il migliore alleato su questa strada sia la morte. Sì la morte, che ti ricorda di vivere ogni attimo nella sua pienezza, come se fosse l’ultimo. Il qui e ora.
Intraprendere questo percorso richiede forza, determinazione e prontezza. Farsi accompagnare dalla morte in vita è una scelta di grande responsabilità. Significa riconoscere che il mondo non ha colpa delle tue sventure. Che se sbagli muori.
Gli antichi Samurai hanno da sempre tutta la mia ammirazione perché mi sembra che nessuna altra casta e classe sociale dell’antichità abbia interpretato così fedelmente l’idea di servire la propria causa senza alcun timore della morte. Uomini ordinari in apparenza, che traevano un guadagno irrisorio dal proprio servizio, cento ‘koku’, la misura unitaria con cui si definiva una certa quantità di riso. Per un samurai l’appartenenza alla casta dei guerrieri era di per sé ricompensa sufficiente per vivere. L’onore di servire un Daimyo, l’orgoglio delle ferite di guerra, la disciplina del corpo e dello spirito attraverso una serie di complessi rituali, sono solo alcuni dei grandi valori di un vero Samurai. Individui spesso drammaticamente soli e alle prese con povertà di mezzi, temperature freddissime e situazioni di grande pericolo. Che nonostante tutto conservavano la propria fierezza, volontà e coraggio.
Chi combatte per la vita ha qualcosa da perdere e dunque si ritrae, si affanna e diventa vulnerabile; diversamente si è invincibili, perché si può morire una volta sola.
Ai nostri tempi è davvero arduo scovare valori a cui consacrare un’esistenza. È quasi impossibile, e infatti nessuno lo fa.
Quanto migliori saremmo tutti noi se potessimo concedere a un valore che non fosse l’esistenza fisica, il primato più alto? Come si trasformerebbe il nostro mondo se d’incanto nessuno di noi riuscisse più a mentire, a dissimulare, a temere la solitudine, la privazione, la morte? Vivere la propria vita dopo aver ucciso la propria esistenza fisica, i desideri, i capricci, le velleità… Vivere attestandosi a un livello superiore di consapevolezza, laddove non esistono le trappole della vanità, dell’orgoglio e dell’apparire. Senza paura, né spirito di auto-conservazione. Questo istinto che molti considerano un’umana impellenza, un fatto concreto senza il quale cadremmo tutti preda di una trappola suicidiaria inutile e idiota. E che invece mi sembra un meraviglioso alibi per legittimare gli atti di egoismo più estremi. Il dogma di una religione dell’opportunismo che sancisce, in definitiva, l’esistenza della fortuna e il valore della sorte.
Mi chiedo chi di noi sarebbe capace di fare questo salto nella psicologia.
Forse solo un Samurai moderno.
Non credo nella sorte e non credo nel destino, ma sono figlio del consumismo, del permissivismo e di una falsa democrazia, dunque non potrò mai dare una risposta oggettivamente valida a queste domande se prima non riesco a evadere da questa attuale condizione di soggezione.
Ebbene sì, lo confesso: sto cercando una via di fuga.
Ma il sovvertimento delle regole è ancora un forte tabù. Il sistema ci osserva come si fa con i topolini in gabbia e, in presenza di una variabile non prevista, ci riporta subito alla condizione di non nuocere. Il sistema si auto-protegge e non tollera movimenti controproducenti. È per questo che sono convinto che la rivoluzione non possa nascere dalla massa, che il vero sovvertimento sia un fenomeno che si completa nell’invisibile, a livello individuale.
La massa è sempre manovrata più o meno consapevolmente dalla guida di un’idea, dal sogno di un solo individuo. Ma quante volte la massa è riuscita ad avanzare compatta e sovvertire il sistema? Poche volte nella storia. E in questi casi sempre a opera di quegli individui che hanno realmente sentito l’esigenza di una rivoluzione, sono diventati una cosa sola con questa idea e di conseguenza l’hanno attuata. Dallo spazio passivo del sognato, questi uomini sono diventati essi stessi sognatori attivi della rivoluzione. È impossibile fallire, in questi casi.
Si può non muovere la propria ombra?
La superficialità della nostra epoca è testimoniata dalla mancanza di stupore, dall’incapacità di amare, dall’oblio di se stessi. Di quell’anima purissima che secondo Mishima ciascun uomo possiede e di cui deve semplicemente ricordarsi.
Nessuno più si sorprende, non c’è incredulità e amore dell’azione in nome dei valori più puri dell’uomo: semplicemente si prende atto di ciò che accade, si spegne la televisione, si accende una sigaretta e amen.
Permettetemi – allora – di muovere altri personaggi al posto mio.
Chissà che, nel tempo, non mi si rivoltino contro.
Fabio Mango
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