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martedì 11 settembre 2007

IL FUNZIONARIO AMMINISTRATIVO una riflessione di Simonetta Delle Donne

Negli anni seguenti l’unità d’Italia, l’impiego presso la Pubblica Amministrazione (P.A.) veniva considerato come una sorta di locatio operarum, ovvero una prestazione di attività lavorativa regolata dal diritto privato, ma con alcune peculiarità soprattutto in materia di assunzione, carriera e aspettativa. Successivamente, una profonda evoluzione in senso pubblicistico caratterizzò il settore pubblico e se da un lato il dipendete abbandonò il ruolo di semplice prestatore di lavoro, per assumere quello privilegiato di preposto ad un ufficio con specifiche potestà, dall’altro, con l’introduzione della disciplina organica degli impiegati civili dello Stato (1923) e l’affidamento delle relative controversie ai giudici amministrativi (Giunte provinciali amministrative e Consiglio di Stato)(1924), venne a crearsi un vero e proprio corpus normativo, ben distinto dalla disciplina inerente al lavoro privato. In seguito, videro la luce testi legislativi particolarmente innovativi, giudicati ancor oggi fondamentali, se non altro per comprendere appieno la logica di certe scelte effettuate: il D.P.R. 3/1957, meglio noto come il T.U. degli impiegati civili dello Stato, che cercò di attenuare l’impostazione rigidamente gerarchica del 1923; la L. 312/1980, che introdusse sia le qualifiche funzionali articolate in profili professionali, sia i principi di efficienza, efficacia ed economicità; la L. 93/1983, legge quadro del pubblico impiego, che avvalorò ufficialmente la contrattazione collettiva; il D.P.R. 347/1983, che consentì il raggiungimento di alcuni obiettivi rilevanti prefissati in testi legislativi precedenti e introdusse nuovi istituti; la L. 142/1990, che disciplinò il nuovo ordinamento delle autonomie locali; la L. 241/1990, che regolamentò il procedimento amministrativo; il D.Lgs. 29/1993, che completò il processo di privatizzazione del lavoro pubblico, determinando oltre alla contrattualizzazione dello stesso ed il conseguente assoggettamento dei dipendenti pubblici al diritto comune, anche la cancellazione (o quasi) della posizione di supremazia speciale della P.A. nei confronti del proprio personale; i DD.LLgs. 396/1997 e 80/1998 (in attuazione della delega contenuta nella L. 59/1997) che portarono a compimento il noto processo di privatizzazione; il D.Lgs. 165/2001, che costituì il primo T.U. sul pubblico impiego post riforma, modificato poi dalla L. 145/2002 e dal D.Lgs. 3/2003.
È d’uopo ricordare che, nell’ambito del pubblico impiego, si adotta una terminologia specifica, quindi si parla di “rapporto di servizio”, se si fa riferimento all’attività lavorativa del dipendente, che si impegna a fornire una determinata prestazione in cambio di una specifica retribuzione, invece, si opta per l’espressione “rapporto di ufficio”, se si esamina il collegamento giuridico esistente tra il suddetto lavoratore e una componente dell’organizzazione: nesso grazie al quale la persona fisica acquisisce la capacità di esercitare i propri poteri e le proprio funzioni, che le norme attribuiscono specificatamente a tale ufficio: si noti che la disciplina che regolamenta il rapporto di ufficio è variabile, proprio in relazione al tipo di ufficio. In questo caso, in quanto titolare di una sfera di funzioni pubbliche, il dipendente è chiamato Funzionario Pubblico: quando si tratta di un ufficio-organo, il soggetto è persino dotato della capacità di compiere atti giuridici con rilevanza esterna, mostrando con maggiore evidenza la propria immedesimazione con la componente dell’organizzazione amministrativa, che caratterizza tale figura. La titolarità dell’ufficio si può acquisire per nomina o a seguito di elezione e si può perdere per dimissioni, per scadenza del termine, per revoca o rimozione. Esistono alcuni principi comuni a tutti i titolari di uffici, che consentono di comprendere quanto questo ruolo rappresenti davvero il cardine dell’intera P.A., sia in presenza che in assenza di figure dirigenziali: es. la continuità dell’ufficio, anche in caso di discontinuità dell’attività del suo titolare (si giustifica così l’applicazione di istituti quali la reggenza e la supplenza); la legalità del conferimento della titolarità; la disciplina e l’onore richiesti nell’adempimento delle funzioni.
Tutti conoscono i problemi del settore pubblico italiano, ma i massimi esperti in materia sono senz’altro coloro che sono immersi in questa realtà quotidianamente, cioè i dipendenti degli enti pubblici: un vero e proprio esercito, se si pensa che, nel dicembre 2003, i lavoratori effettivi in servizio erano più di 3.500.000, pari al 16% dell’occupazione totale rilevata nel Paese (Nota Istat 27/02/2007, “Statistiche sulle amministrazioni pubbliche”). Negli ultimi decenni lo scenario è profondamente mutato ed è necessario acquisire nuove capacità per adattarsi ai cambiamenti in atto e per riuscire a governare processi sempre più complessi, sperimentando vie nuove e abbandonando coraggiosamente modelli del passato, che talora esercitano un’azione frenante sul presente, però, al contempo, si registra anche un fenomeno preoccupante, cioè un diffuso disinteresse da parte degli Amministratori e dei Dirigenti nei confronti del clima lavorativo interno, contraddistinto da un dilagante malumore, che serpeggia negli organici a tutti i livelli. Sarebbe opportuno riscoprire quei valori e quei principi professionali tipici della P.A., che dovrebbero proprio costituire le fondamenta di tutta la Pubblica Amministrazione, secondo quanto dispongono le leggi vigenti: es. l’imparzialità, la parità di accesso, la difesa del bene pubblico, per citarne solo alcuni. Valori giudicati pericolosamente obsoleti, seppelliti colpevolmente nel passato prossimo, spesso completamente ignorati e rarissimamente testimoniati! Riappropriarsi di tale ricchezza valoriale favorirebbe senz’altro il coinvolgimento degli operatori, rendendo più sereno il clima lavorativo attuale e aumentando la produttività degli addetti, sebbene un coinvolgimento maggiore possa anche comportare un ulteriore investimento emotivo e causare forse qualche delusione in più nei lavoratori maggiormente sensibili, però le indagini più recenti parlano chiaro e occorre tempestivamente intervenire: i dipendenti del settore pubblico, infatti, spesso silenziosamente protestano, denunciando un comportamento schizofrenico delle organizzazioni in cui operano, strategicamente protese alla soddisfazione dei bisogni della cittadinanza, ma sorde alle richieste provenienti dagli uffici interni, come se i dipendenti fossero stati privati della cittadinanza e dei diritti correlati al momento dell’assunzione.
A questo punto, c’è sempre qualcuno che invoca il classico deus ex machina per la risoluzione di ogni problema e inventa il ruolo di un nuovo burocrate o di un nuovo comitato tecnico, autorevole e indipendente, un novello controllore capace di rendere perfetta ogni amministrazione, rivalutando proprio quei principi antichi, scolpiti nelle norme, ancora esistenti, ma caduti nell’oblio, quali il buon andamento, la trasparenza, la legalità, l’efficienza, l’efficacia ecc... Se si realizzasse tutto ciò, vi sarebbero molteplici ricadute vantaggiose: ogni attività intrapresa sarebbe anche economicamente conveniente, come naturale conseguenza di una situazione favorevole, anche perchè le risorse, a parità di risultati produttivi, sarebbero meglio impiegate e gli obiettivi prefissati sarebbero raggiunti, con piena soddisfazione dei cittadini. È importante sottolineare che economicità e imparzialità sono concetti interdipendenti, poiché il bene comune si può perseguire solo prevenendo conflitti di interesse, mentre la convenienza economica oggettivizza i comportamenti in vista di un fine unificante: ecco perché l’impiego sub-ottimale delle risorse pubbliche deve sempre essere debitamente motivato, perché condannabile, essendo giudicato dannoso per l’intera collettività. Ora, se all’interno della P.A. questi valori non hanno la forza trainante e aggregante, che invece ha il profitto nel settore privato, è anche vero però che il ruolo istituzionale dell’ente pubblico, con le sue specifiche finalità sociali, offre una concreta possibilità di riscatto, sollecitando i dipendenti più onesti ad adottare comportamenti congrui e consoni al proprio ruolo, basati sull’esercizio del potere come servizio a favore dell’intera collettività.
Chiunque si può rendere conto del periodo difficile che sta vivendo il pubblico impiego e non è un caso che siano così frequenti anche le vertenze giudiziarie, che vedono contrapposti in tribunale gli enti pubblici e i propri dipendenti. Alcuni aspetti del problema sono emersi dalle indagini condotte in questi anni dal Dipartimento della Funzione Pubblica, es. Programma Cantieri, in cui addirittura è stato stilato un elenco di indicatori di “malessere”, per evidenziare ed esplicitare il disagio presente sul posto di lavoro presso gli enti pubblici, consentendo di comprendere meglio quali siano i “campanelli d’allarme” che denotano tale disagio: es. assenteismo, disinteresse, desiderio di cambiare attività, alto livello di pettegolezzo, risentimento nei confronti dell’organizzazione, aggressività abituale, nervosismo, disturbi psicosomatici, sentimento di inutilità, sentimento di irrilevanza, sentimento di disconoscimento, lentezza, confusione organizzativa in termini di ruoli e compiti, calo della propositività a livello cognitivo, aderenza formale alle regole, anaffettività lavorativa. Un’organizzazione può dirsi salubre quando almeno rispetta tutte le norme vigenti (amministrative, civili e penali), valorizza le competenze già esistenti e offre un ambiente di lavoro stimolante con obiettivi espliciti: in questo modo senz’altro previene situazioni dannose per i lavoratori e per lo stesso ente pubblico. Oggigiorno invece sembrano deluse varie legittime aspettative dei lavoratori pubblici, soprattutto in materia di responsabilità-prestazione-retribuzione-carriera, con inevitabili ricadute negative sulle rispettive famiglie, che talvolta devono affrontare spese legali ingenti per difendere diritti costituiti con l’auspicio di poter vedere riconosciuta in giudizio la legittimità delle loro pretese in un arco temporale ingiustificatamente lunghissimo. Non è un caso, quindi, che si abbia un calo progressivo sia della motivazione al lavoro, sia del senso di appartenenza al proprio ente-azienda, a fronte di continue frustrazioni per lo spazio di autonomia spesso assai ristretto e per il desiderio di maggiore personalizzazione della propria attività, di frequente “castigato” da un sorta di fisiologico anonimato, anche quando il proprio lavoro è riconosciuto come determinante: quest’ultimo aspetto risulta molto problematico per determinate figure, poiché nel settore pubblico non esiste la nozione unitaria di lavoro, ma esistono contributi professionali molteplici, caratterizzanti i singoli segmenti del processo produttivo.
Questo disagio si inserisce in un contesto sfavorevole, in quanto la fiducia nelle istituzioni italiane non può che diminuire, condizionata com’è anche dal comportamento dei mass media che, oltre a confermare i dati più nefasti, riportano frequentemente notizie di cronaca davvero raccapriccianti per qualsiasi cittadino dotato di un normale senso dello Stato: infatti, l’insoddisfazione e la rabbia aumentano proporzionalmente vedendo politici e burocrati che dilapidano denaro pubblico a proprio vantaggio, a dispetto delle leggi vigenti, aggirando sistemi posti a garanzia del bene comune: basti pensare alle valutazioni periodiche cui devono soggiacere i Dirigenti, ai fini dell’eventuale rinnovo del contratto individuale, che talora si rivelano davvero procedure “farsa”, in cui gli stessi soggetti si autovalutano e si autopromuovono, assicurandosi nuovi incarichi super pagati, con denaro pubblico! Per questo, di fronte a certi sprechi e a certi disservizi, il riconoscimento del valore sociale del proprio lavoro non è più sufficiente e occorre il ripristino di una legalità vera e non di facciata! È necessario correggere e reprimere tempestivamente i comportamenti riprovevoli contrari all’ordinamento giuridico in vigore, perché è necessario rendersi conto che la Pubblica Amministrazione è un bene di tutti e può davvero essere danneggiata sia dai propri amministratori che dai propri dipendenti, sia con azioni che con omissioni, agite con dolo o con colpa grave (ex L.639/1996), sebbene, purtroppo, rarissimamente chi commette illeciti soffre a titolo di pena una diminuzione del proprio patrimonio, perchè solo in campo penale la responsabilità è esclusivamente personale (art.27 Cod.Pen.) e nella maggior parte dei casi l’azione giudiziaria viene promossa in campo civile o amministrativo, quindi non può che richiedere che la condanna dell’ente nella sua interezza. È bene ricordare, a questo proposito, che in ordine alla responsabilità amministrativa, che ha quasi assunto i connotati di un istituto proprio del settore pubblico, sono stati congegnati alcuni modelli particolarmente interessanti: se da un lato, è stato sottolineato il carattere pubblicistico e sanzionatorio della stessa, dall’altro è stata considerata alla stregua di una species del genus responsabilità civile per danno, in rapporto al concetto di risarcimento, mentre taluno ha addirittura cambiato prospettiva d’analisi e ha preferito trattarla come una responsabilità complessa, distinguendo le singole sue funzioni: funzione risarcitoria, funzione sanzionatoria, funzione preventiva, funzione di garanzia. Sicuramente il verificarsi di un vero danno erariale è un elemento fondamentale della responsabilità amministrativa e ciò deve intendersi nella configurazione civilistica che ammette sia il danno emergente, con riferimento alla perdita subita, che il lucro cessante, in relazione al mancato guadagno. La Corte dei Conti, poi, ha ripetutamente evidenziato che tale danno è risarcibile solo quando è certo e attuale, oltre ad essere effettivo: certo è che il danneggiamento subito dalla cittadinanza non viene mai indagato, provato e quantificato, sebbene il concetto di danno pubblico sia stato notevolmente allargato negli ultimi decenni, fino a comprendere molteplici interessi generali di natura eminentemente pubblica riferibili allo Stato come comunità.
A onor del vero occorre riconoscere l’impegno di molti enti nel fronteggiare alcuni problemi interni ed esterni, sperimentando coraggiosamente forme contrattuali nuove, prima sconosciute, che hanno consentito di creare e mantenere aperti alcuni servizi, che avrebbero avuto costi insostenibili in mancanza di personale a part time. In certe realtà, forme contrattuali che si potrebbero anche definire “non convenzionali” hanno costituito spesso l’unica chance per sbloccare assunzioni necessarie, consentendo l’arruolamento di nuove risorse per far fonte al fabbisogno, di fronte a vincoli legislativi rigorosi. Le ricerche sul campo hanno chiarito che la diffusione di vari istituti, riconducibili al concetto di flessibilità, in cui rientrano contratti tra loro molto diversi, è ancora molto bassa (nel 2003 i dipendenti a tempo parziale costituivano il 4,4% del personale in servizio a tempo indeterminato) (Nota Istat 27/02/2007, “Statistiche sulle amministrazioni pubbliche”) ,sebbene il trend sia in crescita, soprattutto nel comparto delle regioni e delle autonomie locali. In tale contesto, il rapporto tra pianificazione strategica e controllo ha un ruolo particolarmente significativo, perchè proprio a livello di amministrazione locale, cioè in un ambiente caratterizzato da una dinamicità crescente, si evidenziano vari fenomeni: mutamenti culturali, sociali, economici, tecnologici e politici; una significativa evoluzione e variabilità della domanda di servizi pubblici; il maggior numero e la più ampia estensione di funzioni attribuite ai governi locali da parte degli enti istituzionali sovraordinati, soprattutto in relazione all’applicazione sempre più spinta del principio di sussidiarietà, attraverso l’attuazione del federalismo amministrativo e della devoluzione di poteri dal livello di governo centrale a quelli regionale e locale. Qui innegabilmente il cittadino esercita un maggiore controllo sull’operato delle istituzioni pubbliche e proprio a questo livello gli enti dovrebbero applicare con maggiore attenzione la normativa per diventare operativamente più efficienti, anche perché la P.A. non può più porsi verso l’esterno come uno statico produttore di servizi standardizzati e indifferenziati, nel tempo e nello spazio, ma deve compiere un serio esame di coscienza per riconoscere che non esiste un solo pubblico uniforme con bisogni ripetitivi, ma più “pubblici” diversi tra loro che esprimono domande varie, eterogenee, in evoluzione costante per ottenere servizi, quantitativamente e qualitativamente superiori. Analizzando la natura dei cambiamenti in atto ci si rende conto di quanto sia opportuno, conveniente e doveroso investire maggiormente sui dipendenti pubblici, migliorando il legame esistente tra detti lavoratori e le rispettive istituzioni: tutto ciò avrebbe una ricaduta positiva sul pubblico impiego, migliorerebbe l’efficacia dell’intervento pubblico, avvantaggerebbe l’intero Paese, dal momento che la qualità dei servizi pubblici dipende in larga misura dalle qualità professionali e personali degli addetti che vi operano.
Nonostante continui a sopravvivere il modello amministrativo tradizionale, caratterizzato da un forte legame con la tradizione passata, in cui non si gestiva il personale, ma lo si amministrava, in cui i meccanismi retributivi venivano considerati gli unici strumenti per la gestione del personale, ove dominava esclusivamente il valore dell’anzianità, in molti enti si assiste alla progressiva assunzione di un altro modello denominato telocratico (dal greco telos, insieme di strumenti per il raggiungimento di un fine/obiettivo). Se questa è la sfida imposta dalle politiche di riforma, occorre, però, comprendere che i mutamenti organizzativi e culturali connessi non possono essere applicati meccanicamente ed omogeneamente, nemmeno in linea teorica, in quanto occorre sempre un supporto culturale. Mentre nell’immediato passato l’attenzione si era concentrata sostanzialmente su poche politiche di direzione del personale riguardanti soprattutto gli stipendi, le carriere e le relazioni sindacali, oggigiorno, invece, occorre andare anche oltre, cioè migliorare la qualità del lavoro, fornire nuove opportunità di sviluppo professionale, investire sulle relazioni interne, che devono essere sempre più salde e capaci di produrre significati e valori condivisi. Questo profondo rinnovamento, che sta interessando il sistema P.A., mira ad affermare e potenziare la capacità di qualificarsi come fattore di sviluppo sociale ed economico del Paese. Alcuni pensano che sia sufficiente quale conditio sine qua non il superamento dei modelli organizzativi antiquati e delle logiche di stampo burocratico, che vedevano nella conformità alla norma l’unico criterio di valutazione della bontà dell’operato pubblico, ma in realtà è necessario soprattutto porre al centro il cittadino, focalizzando l’attenzione sulla necessità di soddisfare le sue esigenze, come singolo e come comunità, instaurando in tal modo un valido “sistema pubblico integrato”, in linea con la nuova logica di governance, nell’ambito del quale l’istituzione dovrebbe gestire il ruolo di soggetto regolatore con un suo spazio da esplorare più che con un insieme di norme da applicare.
Continua....
Dott.ssa Simonetta Delle Donne

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